martedì 18 novembre 2025

LA PANCHINA

Big Bench: dove sono le panchine giganti panoramiche
prima big bench

Dopo lunghe passeggiate, nei boschi, lungo l’argine di un fiume, sul lungomare, su sentieri di montagna, la visione in lontananza di una panchina è sempre sinonimo di ristoro. Di riposo. Ma anche di momento in cui dare uno sguardo a ciò che ci sta intorno con tranquillità e serenità. Spesso le immagini che restano di quella passeggiata sono proprio quelle che ricordiamo mentre siamo seduti. Addirittura si è arrivati al movimento delle Big Bench (panchine giganti) sparse in tutta Italia dove si possono godere delle visuali incredibili con uno spirito rivolto anche alle comunità locali.

 

panchina aleefranz
Ale e Franz

Serenità e tranquillità ma l’immagine della panchina mi rimanda anche alla risata. Sì, la risata che rimanda alle vicende dei due famosi comici di Zelig, Ale e Franz, i quali, adagiati su una panchina pubblica, riescono ad incontrarsi e scontrarsi creando situazioni verbali tanto improbabili quanto esilaranti. Tante volte il vedere quei due ha cambiato l’umore del momento.

 

Ma la panchina rimanda anche a situazioni meno piacevoli, sportivamente parlando. La panchina per uno sportivo è spesso vissuta come un fallimento, un insuccesso, un essere scartati dai titolari. Questo p
erché viene per lo più vissuta in maniera negativa quando, invece, noi inguaribili ottimisti la vediamo in maniera diversa. Noi la si vede come opportunità. L’opportunità di imparare vedendo giocare chi è più bravo di noi e di portare quanto ho imparato in campo quando il mister ce ne darà l’opportunità. Che sia in corso di partita, nella prossima o, ancora, durante gli allenamenti poco importa. L’importante è riuscire a trasformare in positiva questa situazione per una propria crescita personale.

 

La panchina evoca anche ricordi recenti legati al Monza. E’ sabato sera. Moglie e una figlia sono ad un concerto mentre il figlio è tornato a casa in treno ed io sono a zonzo per la città di Caserta senza una vera meta. Ho passato il pomeriggio tra i meandri della Reggia e a camminare tra giardini, alberi e fontane ma ora voglio vedere la città. Mi ritrovo in un piccolo parco incastrato tra i palazzi del centro e mi siedo su una panchina. Guardo lo scorcio di questa città. Siamo al di fuori dello stereotipo delle città campane descritte come caotiche, chiassose e disordinate per non dire arretrate. Quanto meno il centro della città sembra essersi buttato verso le modernità. Con un certo rigore. Pulizia, ordine ed un chiasso pari a quello di una qualsiasi città italiana al sabato sera.

 

Reggia di Caserta
Mentre continuo a guardare la città in fermento anche per la partita del Napoli in corso, il pensiero torna alla sera precedente. Allo stadio Partenio-Lombardi. Sappiamo tutti come andò quella partita. Sappiamo tutti quali siano state le reazioni a quella sconfitta. Ci pensavo giusto in questi giorni. Nei giorni di una di quelle pause per le nazionali che spengono la luce sul calcio nostrano. A quel tempo tutti volevano la testa di Bianco e volevano una reazione da parte della società entrante che, secondo le solite voci dei ben informati, aveva sondato più volte altri allenatori. Finanche il buon Daniele De Rossi che sembrava in procinto di arrivare. Eppure io vidi una squadra viva. Con tante difficoltà, quello sì, ma con lo spirito giusto.

 

Se andiamo a vedere le statistiche di quella gara troveremo certamente dei numeri frustranti. Soprattutto quelli nelle caselle dei tiri in porta. Ma lo svolgimento della gara ha detto che nei primi venti minuti abbiamo pressato alto (come fatto a Bari o con il Mantova) ed abbiamo costruito occasioni mal sfruttate. Abbiamo anche subito dei contropiedi (o ripartenze per voi calciofili moderni) ma gioco-forza quando spingi qualcosa devi subire. Pure la disposizione in campo risulta corretta con l’accettazione di tanti uno-contro-uno dovuta alla volontà del recupero palla veloce. Certo che ti può creare qualche grattacapo dietro ma anche opportunità davanti. Nel secondo tempo abbiamo continuato a provarci troppo poco ma loro sono usciti dalla loro metacampo solo due volte. Una con un contropiede dove Thiam fa una grande parata poi invalidata dal fuorigioco fischiato agli irpini e la seconda nell’occasione del secondo gol dove Russo si inventa una tanto insana quanto spettacolare rovesciata. Per il resto dominio assoluto. Seppur sterile. Il primo gol di Alvarez non riesce a far pendere l’ago della bilancia verso l’impegno dei biancorossi.

 

bandiere biancorosse

Un copione simile si era già visto nelle partite di quel periodo, anche quelle appena successive. Si notava una certa difficoltà nell’arrivare alla conclusione e, soprattutto, sulle seconde palle ma forse oggi possiamo dire che non era mancanza di volontà ma probabilmente lo strascico dei carichi di lavoro estivi che sta portando frutti oggi, nel periodo delle sei vittorie consecutive. Quel bistrattato e semisconosciuto allenatore, che aveva “solo” salvato il Frosinone qualche mese prima e “solo” grazie al caos Brescia, non era ben visto in estate e ancora peggio era considerato dopo Avellino. Il non-gioco espresso secondo alcuni. L’incapacità di gestire un gruppo di personalità importanti e da serie A per altri. Un’incapace di intendere e volere per altri ancora. Possono testimoniarlo gli amici con cui ho avuto a che fare, io ho sempre visto un gran lavoratore che non ha mai perso il focus sulla crescita individuale dei singoli con lo scopo di una crescita globale a livello di squadra. Il suo castematico credo, basato sul lavoro e la concretezza, ha portato la squadra a crescere tatticamente e fisicamente raggiungendo l’apice con l’apoteosi dello 0-3 palermitano.

 

Agli stessi amici l’ho detto più volte, Bianco non è il mio allenatore. Non lo è perché io non l’avrei preso quest’estate. Non lo è perché non l’ho mai considerato tra i papabili. Non lo è semplicemente perché non lo conoscevo. Ma da quando è a Monza ne ho sempre apprezzato lo spirito combattivo e la voglia di lavar via da Monzello quella macchia funerea da fallimento che aveva colorato le pareti durante la retrocessione dalla serie A e durante il passaggio di proprietà. L’ha fatto nell’unico modo possibile, lavorando per migliorarsi e per migliorare la squadra. Non so dirvi come Bianco sia arrivato al Monza. Una scelta di Galliani? Oppure già di Burdisso & C.? Onestamente vi ripeto che non lo so. Ma so che quello che non era il mio allenatore lo è diventato convincendomi con il suo lavoro, il suo atteggiamento ed il suo gioco. E’ certamente vero che un allenatore non vince mai da solo ma rimane uno degli ingranaggi cardine della macchina-squadra.

Paolo Bianco
Paolo Bianco

 

Ecco, tornando all’immagine della panchina, se guardo oggi quella biancorossa penso che sia occupata da una persona che se l’è guadagnata con impegno ed abnegazione. In questo momento non mi sentirei di associare quest’immagine con nessun altro se non con quella di mister Bianco.

Non ci sarebbe manco bisogno di dirlo ma lo faccio ugualmente… Buon lavoro mister.

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